Le mille note di Napoli _ di Simone Cesari
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Le mille note di Napoli
_ di Simone Cesari
Caro Pino,
è un’afosa giornata di fine estate, una di quelle in cui ogni movimento richiede molta più energia di quanta vorremmo spendere e una goccia di sudore scende per ogni respiro. Sto ascoltando la tua Napule è mentre il treno sta per terminare la sua corsa al binario 12 di Napoli Centrale. Sono venuto nella tua amata città per incontrare un’amica che abita a Capodimonte. È la prima volta qui per me e sono un po’ agitato al pensiero di ritrovarmi in mezzo a tanta, tanta gente.
Napule è mille culure
Napule è mille paure
Mentre aspetto di scendere dal mio vagone, guardo attraverso i finestroni e le banchine mi sembrano letti di fiumi umani che scorrono sotto i tabelloni delle partenze, tra le vetrine dei negozi e i fast food e si diramano in tutte le direzioni. Scorgo il simbolo della metro e mi immergo nella corrente. Il tragitto sembra interminabile. Intorno a me pendolari, turisti, ragazzi con le cuffie, qualche volto diffidente. Mentre provo a orientarmi, cerco di assumere un'aria da locale, di chi conosce la strada e sa dove andare.
“Scusi, avete bisogno d’aiuto?”
‘Non ha funzionato...’ penso.
“Dove dovete andare?” continua il buon samaritano, un signore anziano e cordiale.
Gli dico che sono diretto a Capodimonte. Mi mostra la mappa della metro, la direzione da seguire e la fermata a cui scendere, mi indica la macchinetta per i biglietti, poi aggiunge:
“Se andate a Capodimonte, dovete per forza vedere le catacombe di San Gennaro e fatevi pure un giro al Real Bosco…"
Mi colpisce la sua attenzione, la disponibilità spontanea. Per un attimo mi chiedo se si aspetti qualcosa in cambio. Ma no, vuole solo aiutare. Forse scambiare due parole. Forse, semplicemente, essere gentile.
Napule è na’ camminata
Int’e viche miezo all’ate
Le rotaie stridono e dalla buia galleria appare un bagliore, fino a che non emerge il treno, già carico di passeggeri. C’è un po’ di ressa, ma alla fine riesco a entrare e mi sistemo in un angolo. Di fronte a me, una signora con un sacchetto della spesa fissa il pavimento, gli occhi stanchi, persa nei suoi pensieri. ‘Starà tornando a casa’ penso. ‘Ci sarà qualcuno ad aspettarla?’
Scendo a piazza Cavour. Decido di farmela a piedi fino a Capodimonte. Non mi resta che attraversare rione Sanità, che si staglia dinanzi a me.
Risalgo per via Vergini e mi trovo ad attraversare l’omonimo mercato. Dal traffico nella via centrale si distaccano numerosi motorini che invadono i marciapiedi e ronzano tra le bancarelle con una disinvoltura da acrobati. Uno di questi mi colpisce perché non ha la targa, al suo posto un cartello scritto a mano che recita “Napoli champions”. Il signore che lo guida veste in canottiera, pantaloncini e infradito. Ovviamente senza casco, si fuma sigaretta, ha gli occhi nervosi e sembra conoscere tutti.
Ovunque voci che si chiamano, si salutano, contrattano, litigano in un crescendo che sembra recitato, dove non sai mai se i toni sono reali o una finzione teatrale. Un quartiere in cui il tempo si mischia e le generazioni si sovrappongono: bambini che corrono qua e là, giovani e famiglie con i passeggini, anziani seduti sulle sedie di plastica. Tutti elementi di un unico grande organismo.
Sebbene in una grande città, mi pare più di stare in un paesetto dove si conoscono tutti.
Poi, tra i palazzi consumati, un cortile si apre all'improvviso e appare il Palazzo dello Spagnolo. Le scalinate monumentali sembrano collassare su sé stesse in un intreccio di linee eleganti e decadenti. È il ricordo di una Napoli fastosa, avvolto nell’abbraccio caotico della città che negli anni l’ha soffocata. Il contrasto fra bellezza e degrado è forte, quasi doloroso.
Continuo a salire. L’atmosfera cambia. Le voci si affievoliscono, la fanfara lascia spazio al silenzio, quasi più assordante. Le strade si fanno strette, i motorini salgono contromano annunciandosi con un colpo di clacson. Dai bassi, occhi discreti seguono il mio passaggio. Incrocio due bambini che scendono la via verso casa. Il piccolo saltella intorno alla sorella maggiore che lo allontana con una spinta. Ha le sopracciglia aggrottate e lo sguardo severo di una a cui tocca fare da mamma prima del tempo.
Il confine tra il Rione Sanità e Capodimonte è segnato da una targa in fondo alla strada. Con il bagaglio in spalla, la salita si fa sentire. Le macchine si sfiorano nei vicoli, in un balletto millimetrico guidato dal suono dei clacson che qui non sono segnale di rabbia, ma un linguaggio, un codice tra lamiere.
In anticipo di venti minuti, decido di fare un giro nel Real Bosco. È un sollievo. Un’oasi verde che sembra non avere fine, con sentieri che si perdono tra gli alberi. Nei pressi del museo, un giardino si affaccia sulla città. Mi avvicino alla terrazza. Il tramonto che si avvicina tinge i palazzi di una luce dorata. Da qui Napoli si distende fino al mare e i suoni della città arrivano ovattati e si mescolano al fruscio di una brezza calda che mi accarezza la nuca. Mentre sono perso nell’ammirazione della città dall’alto, ho in mente la musica del tuo brano. Le note del tema, suonate dolcemente dall’oboe in apertura potrebbero essere quel venticello calmo e il sole che ogni mattina illumina e scalda tutto il golfo. E poi i mandolini che sottolineano un idillio che subito dopo viene spezzato dalle parole che canti. Perché raccontare qualcosa che si ama non è solamente enfatizzare gli aspetti che ci sembrano più gradevoli, ma avere il coraggio di indicare anche le sue fragilità, le sue tensioni.
Napule è tutto nu’ suonno
E a sape tutto ‘o munno
Ma nun sanno ‘a verità
Di Napoli so molto poco, solo quello che mi arriva dai media. So che è una città bellissima, patria del bel canto, di Totò, della pizza, innamorata della sua squadra di calcio. So anche che è una città difficile, pericolosa, dove il rumore delle armi da fuoco fa da contraltare ai suoni della vita di quartiere, dove si parla una lingua estremamente variopinta e musicale, ma che può trasformarsi in poco tempo in un turpiloquio gretto e violento. E poi ci sono i pregiudizi, quelli che riempiono le orecchie di chi Napoli non la conosce e ne ha paura. Stereotipi che nascono dall’ignoranza e dalla necessità di ridurre a formule semplici ciò che semplice non è. Allora si dice che i napoletani siano pigri, scaltri, fatalisti e superstiziosi. Ma anche generosi, istrionici, melodrammatici, capaci di trasformare il quotidiano in opera teatrale.
Infine c’è quello che ho visto, in questa passeggiata di mezz’ora: un mosaico di frammenti diversi, ma che, nel loro insieme, compongono un disegno unico, impossibile da decifrare con una sola occhiata. Forse non è un caso che proprio tu, con la tua musica, sia riuscito a raccontarla meglio di chiunque altro. Hai mescolato il blues, il jazz e il rock con la tradizione napoletana, creando un linguaggio nuovo, che sapeva di passato e di futuro.
E ora che ci sono stato, che ho provato a guardarla con occhi miei, sono ancora più confuso su cosa sia davvero Napule. Sai, penso che fosse questo il tuo intento: illuderci, con poche parole e una melodia indimenticabile, di poter definire l’indefinibile. Perché Napoli non è solo una città, è una densità: di mare, di cemento, di voci, di storie. Di vita.
Napule è ‘a voce de’ criature
che saglie chianu chianu
e tu sai ca nun si sule
Ma in questo mare denso e intricato che è Napoli, una cosa emerge con forza: Napoli non è solo una moltitudine di persone, come accade in ogni grande città. Napoli è la trama viva di legami che si intrecciano tra chi la abita, un tessuto fatto di voci, gesti, sguardi. Nelle metropoli spesso ci si sente soli, dispersi in un flusso anonimo di volti che scorrono senza incontrarsi davvero. Si può arrivare a perdere il contatto con ciò che ci circonda, a non riconoscere più nemmeno se stessi. Napoli, invece, è una città carnale, che ti strattona, che ti avvolge, che ti costringe a esserci. Ecco che un milione di corpi si sfiorano, si scontrano, si riconoscono. Nessuno è invisibile, qui. A ogni angolo, qualcuno ti ricorda che non sei solo.
Caro Pino, sono qui da meno di un’ora e già mi hai riempito la testa di pensieri, di immagini, di sensazioni. So che continuerò a camminare per queste strade e a ritrovarti in ogni nota che hai lasciato nell’aria. Mi lasci con poche certezze e tante domande, ma forse è proprio questo il segno dei grandi artisti: non spiegano, non semplificano, non rassicurano. Aprono spiragli, accendono dubbi, fanno vibrare corde che non sapevamo di avere. E tu, Pino, in questo, sei stato immenso. E lo sarai sempre.
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